sabato 26 settembre 2015

Opzioni per un poeta


Con parole diverse
dire la stessa cosa,
sempre la stessa.
Sempre con le stesse parole
dire una cosa del tutto diversa
o la stessa in modo diverso.
Molte cose non dirle,
o dire molto
con parole che non dicono niente.
Oppure tacere in modo eloquente.

H. M. Enzensberger
(Traduzione di Donata Berra)

sabato 1 agosto 2015

Onde

[Nella speranza che la prossima cosa abbia una trama]

Le capitava sempre più spesso di perdere la concentrazione. Se provava a spiegarlo, usava l’immagine delle onde che alteravano la superficie del mare. Diceva che era come iniziare a scrivere su un foglio partendo non dall’angolo in alto a sinistra ma dal centro, come se le parole vi si disperdessero attorno, si allontanassero in varie direzioni diverse, come se lo stesso foglio si increspasse nel momento in cui poggiava la penna e la carta cominciasse ad oscillare, uno specchio bianco in cui le sue parole sbiadivano e annegavano. Perdeva la capacità di sintesi; perdeva la messa a fuoco. Per esempio non sapeva che cosa stesse facendo lì.

Se l’albero di Natale che faceva capolino dallo scatolone rettangolare avesse preso un microfono e le avesse domandato: 
«Che stai facendo qui, Marta?»

Lei avrebbe risposto: «Non lo so che cosa sto facendo.»

«Pensi di fermarti per molto?»

«Il tempo necessario a calmarmi.»

«D’accordo, ma sei agitata per qualcosa?»


Questo riconduceva alle increspature al centro del foglio. Prima di fissare i rami dell’albero di Natale si trovava alla sua scrivania a controllare documenti, nella stanza che assieme a Maride avevano sistemato perché entrambe potessero usarla quando avevano bisogno di tranquillità. La scrivania era appartenuta al nonno di Maride; di suo c’erano le carte, i libri, le penne lasciate senza tappo e l’abat-jour comprata al supermercato. Aveva sentito il bisogno di alzarsi e si era alzata. Aveva fatto due passi avanti coprendo la distanza che separava gli angoli del tappeto – anche quello era suo. Di sua madre, per meglio dire. Era stato un regalo gradito, senza quel tappeto dal gusto classico la stanza sembrava un po’ ridicola, pretenziosa: non all’altezza di essere una stanza in cui lei o Maride potevano chiudersi per trovare la giusta concentrazione. Con quel tappeto si riusciva a credere che fosse uno studio vero e proprio, nonostante fosse a fianco della cucina.

martedì 3 febbraio 2015

Educazione

Michele entrò in cucina, luogo in cui di solito non era ammesso, perché si era sentito chiamare. Non ebbe neanche il tempo di guardarsi intorno, fra i vapori dei fornelli, e chiedersi chi mai poteva aver bisogno di lui, che sua nonna gli aveva già afferrato il braccio. Aveva la mano umida e Michele un po’ si dispiacque per la sorte toccata al suo maglione.

«Sono finte le olive, devi scendere nel sottano e prenderne altre scatole.»

Un’informazione confidenziale sussurratagli all’orecchio, un compito importante, assegnato proprio a lui. Michele annuì e chinò la testa per passare oltre sua zia Rosa, che reggeva una pirofila all’apparenza pesante. Zia Anna era l’addetta alla carne – che a lui non piaceva e quindi snobbava – e stava chiedendo se per favore si poteva aprire un po’ la finestra, perché stava impazzendo. Era tutta rossa in viso e si era tirata su le maniche del golf, in effetti. Qualcuna fece notare:

«L’aria fa male alla schiena di mamma.»

Zia Anna ebbe una pronta e secca risposta:

«E infatti mamma non dovrebbe stare lì.»

«Vero, non dovrebbe neanche cucinare.»

«Sì mamma, vai a sederti.»

Presagendo la colluttazione (verbale e non) che sarebbe seguita, Michele sgattaiolò verso la porta, giusto prima che sua nonna cominciasse ad alzare la voce. Non aveva fatto due passi che ricordò di non aver domandato se le olive bisognava prenderle di colore nero o di colore verde. Era un dettaglio importante, fece dietrofront. Facevano ancora proclami circa il fatto che la mamma non dovesse star lì a cucinare, che ci avrebbero pensato loro, ma di fatto nessuna aveva abbandonato la propria postazione.
Per ottenere l’attenzione di sua nonna dovette andarle vicino e così respirare l’odore dei cavoli che stava pelando.

«Di che colore devo prenderle, le olive?»

«Sullo scaffale in alto a destra.»

Perplesso, ma intuendo che non era il momento di fare domande, lasciò la cucina. Fosse dipeso da lui, sarebbe anche tornato di nuovo a chiedere precisamente quanti barattoli servivano e – magari in quel caso avrebbe alzato il tono della voce – se ci volevano le olive nere o le olive verdi, ma non voleva che sua nonna pensasse che era un incapace senza spirito d’iniziativa. Pensò che avrebbe deciso sul momento, in base alla disponibilità delle risorse.


giovedì 11 dicembre 2014

Se questo fosse un racconto consequenziale

Se questo fosse un racconto consequenziale le cose accadrebbero in maniera ordinata. Con la parola cose intendo eventi semplici, come può essere l’ andare da A a B: dal punto A ci si può muovere soltanto verso B, non esiste che si vada a finire sulla Z, così come da B si arriva a C e da C si va a finire a D. Un diagramma di flusso, un esercizio di logica. Una serie di eventi concatenati. Ho fame quindi mangio, ho sonno quindi dormo. Voglio una cosa, quindi me la prendo.

Recarsi in bagno per lavarsi i capelli può ancora rientrare nella sfera della consequenzialità: ho i capelli sporchi, li lavo; anche indossare gli orecchini e passarsi il rossetto sulle labbra (devo uscire di casa, mi rendo presentabile), meno spruzzarsi addosso il profumo delle grandi occasioni, quello che fa la sua bella figura nella confezione esposta nella vetrinetta del bagno. Un profumo da collezione; questo è più difficile da incastrare nella scaletta. Si suppone che la fermata al fornaio faccia parte delle premesse, il sacchetto con i pezzi di focaccia caldi si inserisce bene nello spazio fra “stavo facendo una passeggiata” e “ti ho pensato mentre ascoltavo il telegiornale”; ci sta proprio comodo, in effetti.

A questo punto tocca inserire un elemento casuale, un bivio. If-then, in programmazione. Se la porta del palazzo è aperta proseguiamo, se la porta del palazzo è chiusa tiriamo dritto facendo finta di niente e poi dietrofront. Tra cento metri svoltare l’angolo. Se questo fosse un racconto consequenziale non avrei nessuna preferenza e compirei quest’ultimo tragitto a passo regolare, nella più totale pace dei sensi. Ma si dà il caso che questo non sia un racconto consequenziale. Fa’ che la porta sia aperta.

La trappola è credere che per un meccanicismo superiore le cose vadano da sé; o più volgarmente convincersi che sì, deve accadere per forza, le premesse ci sono. È logica. Ad ogni livello la convinzione si rafforza sempre più, così il trovare la porta aperta fa nascere una potentissima bolla di sicurezza proprio al centro del petto, dove tengo il sacchetto, e da lì questa si spande tutt’intorno, al punto che nel salire le scale del primo piano non ho paura di formulare il bivio successivo.

Tre piani di scale, un palazzo verniciato di giallino – giallo senape, alquanto appropriato al tono della visita: macchie color senape suona certo meglio di macchie color crema. Nessuno si sognerebbe mai di dire macchie color crema, sarebbero al massimo degli screzi color crema, dei riflessi color crema. Se non c’è nessuno in casa giro i tacchi e torno sui miei passi, se è in casa mi fermerò a parlare, entrerò con nonchalance e offrirò le focacce che ho comprato per strada.

Terza porta a sinistra, oltre il quadro con le barchette in riva al mare, zerbino rettangolare con la cornice rossa. Se questo fosse un racconto consequenziale non avrei nessuna paura di premere il pulsante sopra il nome “Gallo” e non trovare nessuno in casa. Non starei lì per un po’, ferma, per ascoltare cosa succede al di là della porta, capire se c’è qualcuno in casa; dondolarsi sui tacchi; decidere se bussare o suonare il campanello. Il campanello è più formale e questa non è una visita formale. Questa è una visita che necessita di giustificazioni, di conseguenze logiche, di essere legittimata – agli occhi di chi, poi? – e di solito le visite formali non necessitano di questo tipo di cose. Se questo fosse un racconto consequenziale, se avessi accumulato sufficienti premesse da legittimare quello che sto facendo, se fossi cioè sicura di essere esattamente al posto giusto e che nessuno seduto nelle ultime file possa alzarsi e interrompere la dimostrazione dicendo “non è possibile!”, busserei con le nocche un paio di volte e sarei sicura che la porta mi verrebbe aperta senza bisogno di domandare chi è. Suono il campanello.

Eccola qui la consequenzialità, il primum movens di tutta la catena, il motivo per cui bisogna costruire premesse e cercare d’indirizzare le conseguenze. In tutta la sua bellezza androgina, completo di pantofole da casa invernali, grigie. La solita maglietta nera di una taglia più grande, i soliti jeans, le solite braccia ossute. Specialmente – e lì vanno i miei occhi – i soliti capelli senza capo né coda. Prossima mossa: giustificare la visita e spiegare perché sto occupando lo zerbino.

«Ho visto che il Torino vince tre a uno, si qualifica per l’Europa.»

Annuisce con aria grave, oserei dire con partecipazione. Lo sa già, ha passato il pomeriggio a guardare la partita, sappiamo tutti che non ha smesso di fissare il televisore finché l’arbitro non ha sancito la fine. Potrebbe persino aver partecipato all’euforia collettiva del quartiere. Non ha oltrepassato la soglia della porta, perciò non mi sta ricacciando indietro; non ha fatto una piega circa le focacce, perciò non si sta chiedendo cosa diavolo stia facendo lì – o non ritiene legittimo domandarlo ad alta voce. Si tira indietro per farmi passare, vedo che storce il naso quando lo sorpasso. Del resto si sapeva che il profumo sarebbe stato più difficile da far quadrare.

Se questo fosse un racconto consequenziale arrivati a questo punto non ci sarebbe bisogno di spiegare in che modo si giunge al successivo, cosa sottendono le ore successive, cosa succede dopo che le focacce sono state apprezzate, dopo che ci si è detti due parole. Invece non importa che cosa blatera lo studente dell’ultima fila col suo quaderno in mano, tutte le premesse, tutte le menate –chiamiamo le cose col loro nome – sulla legittimità e la logica e la progressione obbligata delle cose non spiegano come mai in questo momento, in questo esatto momento ed in questo luogo preciso qualcuno ha deciso di dire che sì, è giusto comunque, ha deciso di lasciar perdere le dimostrazioni, ha deciso che non gli importa se la strada per passare da F a G prevedeva un’altra sequenza, ha deciso di arrivarci comunque. Se questo fosse un racconto consequenziale la sua camera e il suo cuscino non avrebbero lo stesso profumo della boccetta da collezione che ho tirato fuori prima di uscire.

Ma qual era allora il significato dei tentennamenti davanti alla porta, delle riflessioni sul colore dei muri del palazzo, insomma di tutte le insicurezze che hanno preceduto questo slancio di passione, questa fiducia nell’altro non pienamente legittimata?

Comincio a domandarmelo dopo le prime quarantotto ore, nelle quali non segue nessun messaggio, nessuna chiamata, nessuna comparsata sul mio pianerottolo. Nessuna zazzera di capelli oltre lo spioncino della porta, nessun vassoio di pasticcini sorretto dalle dita più pallide che abbia mai visto. Mi dico che è questione di tempo perché ha scelto di ignorare i motivi per cui non avrei dovuto essere lì, quel giorno, a casa sua, tutte le obiezioni, le circostanze, il fatto che nella sua vita ci fosse una persona con un profumo diverso.

Il quarto giorno, vincendo l’impulso di correre di nuovo sul quel pianerottolo e bussare alla porta, ripercorro gli eventi, mi chiedo cosa ho sbagliato. Dove sta l’errore, nelle premesse o nella valutazione delle conseguenze? D’improvviso la scintilla, l’intuizione, il cambio di prospettiva. La risposta sta dall’altra parte della porta, in quella maglietta informe e nei calzini a righe spaiati, nel vedersi comparire davanti una ragazza in cerca di affetto, mendicante, non doversi sforzare nel costruire delle premesse, accontentarsi di quelle che lei ha messo su in maniera goffa e raffazzonata. Gettare in quel momento, nello stesso istante in cui infili la mano nel sacchetto per prendere il pezzo di focaccia bianca, nuove premesse, mascherarle ai suoi occhi. Farle credere di essere uscito fuori dallo schema. Lei che non riesce a passare da G ad H e tu che già vedi la fine della strada.

In effetti questo è un racconto consequenziale, dopotutto.